La focaccia genovese: un must per chi viene a Genova!
20 Mar 2015 - Curiosità, Enogastronomia, Magazine
Pare che la focaccia genovese vanti origini molto antiche. A sentire Catone, forse già intorno al II secolo a.c. Oggi è presidio slow food ed è molto amata anche al di fuori dei confini regionali e persino nazionali (e spesso maldestramente imitata!).
La focaccia genovese: un must per chi viene a Genova!
Nel catering dei congressi a Genova ha il posto d’onore nei coffee break, accompagna gli stuzzichini dei cocktail, è la prima a sparire dai cestini del pane sui tavoli dei pranzi e anche delle cene di gala.
Unità di misura della focaccia genovese.
Sopravvive ancora nello slang degli ultimi discendenti dei genovesi doc la definizione di slerfa – o sleppa – a indicare la fetta di formato standard, tra l’etto e mezzo e i due etti. La tradizione la vuole alta uno o due centimetri, la crosta croccante ma cedevole al morso, dorata dal calore del forno, lucida dell’olio che dovrebbe anche riempire le piccole pozze dei buchi creati dalle dita del panettiere dopo la prima lievitazione.
Scrivono di lei…
Così la descriveva, ispirato, Vittorio G. Rossi, giornalista e scrittore ligure, nel suo Maestrale:
Essa è la nostra focaccia ligure, niente a che fare con le pizze cosparse di condimenti; essa è una delle cose più semplici che ci sono, semplice come l’acqua di sorgente; è pasta di farina, sale e olio; è cotta nel forno su una lamiera di ferro triangolare; ha lo spessore di un dito mignolo, anche di meno; con le punte delle quattro dita di una mano e le quattro dell’altra, il fornaio la ricopre di buchi; in essi si raccoglie l’olio d’oliva come le lacrime di un pianto, ma è un pianto di gioia.
La focaccia bisogna mangiarla appena esce dal forno; allora brucia le mani, ha tutto il suo olio vivo e sano e caldo, e bisogna mangiarla camminando lentamente, come se si pensasse alla fondazione del mondo; e non si deve pensare a niente, solo alla focaccia che si sta mangiando.
E se si è in vista del mare, è meglio ancora: la focaccia allora si condisce anche di mare.
A fugassa co-e purpe (Focaccia con le olive).
Una variante, ormai quasi del tutto scomparsa, è la focaccia con le polpe d’oliva. Veniva preparata ai primi di novembre, utilizzando i residui della spremitura delle olive.
Sempre Vittorio G. Rossi così la ricorda, ancora in Maestrale:
Quando c’era la Novena dei Morti, mia madre ci portava alla novena; era ancora notte, non c’erano neanche i primi segni dell’alba; si usciva nell’aria fredda di novembre, gli occhi pieni di piombo, alzarsi dormendo, fare i primi passi dormendo, imbattersi in quell’aria, sentire come una ferita e poi entrare nella chiesa coi lumi e le preghiere.
E poi lei ci portava nel forno appena aperto, c’era la “focaccia con le polpe”.
Era calda, nerastra, piena d’olio; c’erano dentro i piccoli pezzi di polpa di olive spremute nel frantoio e adesso ogni tanto mi tornano quelle mattine buie di novembre, quella luce tremolante che faceva chiaro ai morti e il sapore oliato e caldo della focaccia, e mia madre che amministrava quelle nove mattinate di cerimonia funebre, e riuniva i vivi e i morti, e le preghiere e la focaccia, come se tra il mondo di là e quello di qua lei sapesse senza dubbio alcuno quello che c’era, e come bisognava comportarsi.
A fugassa co-e sioule (Focaccia con le cipolle).
Particolare, per chi se la sente di osare, la variante che la vede cosparsa di cipolle tagliate finissime, dorate e brunite dalla cottura. Il profumo della focaccia con le cipolle, se la si ama, ha qualcosa di inebriante. Il sapore che permane in bocca è il prezzo da pagare per qualche attimo di godimento papillare.
Ottima al mattino con il caffè e il cappuccino, il che non si crederebbe, per chi vuole invece ricalcare la tradizione dei pescatori, si accompagna a un vino bianco secco, fresco. Si consigliano, ovviamente, gli ottimi liguri: Pigato, Lumassina, Polceverasco, Vermentino delle Cinque Terre.